Tanti auguri a Giuseppe Giannini che oggi compie 60 anni. Romano e romanista, il Principe, chiamato così da Odoacre Chierico per il suo modo elegante di correre a testa alta, ha indossato la maglia della AS Roma per 16 stagioni, disputando 318 partite e mettendo a segno 49 gol. Fece il suo debutto con la casacca capitolina nella stagione 1980/81, quando al 56esimo minuto del match interno contro il Cesena Nils Liedholm lo mandò in campo al posto di Scarnecchia.
Qui leggiamo uno stralcio della bella intervista che Giuseppe Giannini ha rilasciato nel maggio 2020 al Giornale Romanista:
Il giorno del tuo esordio (Roma-Cesena), c’è stato quel malinteso con Falcão che ti è costato probabilmente la retrocessione in Primavera per la stagione seguente. Quali sono state le tue sensazioni dopo quella partita e che cosa o chi non ti ha fatto abbattere?
Devo ringraziare la mia famiglia ed ai miei amici. Mi si prospettava un periodo critico, anche di prese in giro, quando sono tornato nei campi della Primavera. Addirittura la domenica dopo ho giocato il derby con gli Allievi Nazionali all’Urbetevere, ma non mi sono abbattuto, tanto che in quella partita io feci 2 gol. Quando sei ragazzo anche se ti demoralizzi ci sta la spensieratezza dell’età, comunque avevo giocato in Serie A, ero arrivato a coronare uno dei miei sogni: quello di giocare all’Olimpico con la maglia della Roma, nel massimo campionato Italiano. Poi è scattata quella molla, il voler ritornare a quei livelli.
Proprio oggi diventavi campione d’Italia con la Roma nel 1983, nonostante tu non fossi mai sceso in campo in campionato. Quanto rammarico c’è stato nel non aver mai giocato in quella strepitosa stagione?
Intanto davanti a me avevo una squadra composta da tanti campioni, io ero appena ragazzo. Nell’ultima partita contro il Torino potevo avere la soddisfazione di stare in panchina e magari giocare gli ultimi 10 minuti, ma quella settimana sono stato convocato con la Juniores e sono dovuto partire per un torneo. Comunque in quella stagione a 17 anni ho fatto diverse panchine, qualche presenza in Coppa Italia, però in campionato non ho mai avuto modo di esordire. Tutto questo è servito a forgiare un po’ il carattere, a viaggiare un po’ sopra le righe, mi è servito per imparare a dosare le emozioni. Non mi esaltavo più di tanto nei momenti belli, come non mi buttavo giù nei momenti brutti.
Sei dunque rimasto con i piedi per terra?
Si, qualche stronzata l’ho fatta pure io, però tutto sommato penso sia stata una carriera nella lealtà, nella sportività e nella professionalità di cui vantarsi. Sono sempre stato un professionista, uno serio, ogni volta che ho messo la maglia della Roma, sia all’Olimpico che in altre circostanze. Ho sempre cercato di dare il massimo che in quel momento potevo dare.
E questo si è notato soprattutto vedendo l’amore che il tifoso romanista ha verso di te.
Questo mi fa piacere, vengo ancora rispettato molto e questa è una grande soddisfazione per me. Sono passati molti anni da quando sono andato via e da quando non frequento più l’ambiente Roma a livello lavorativo, ma comunque quando vado allo stadio e incontro la gente ci sono attestati d’affetto e stima nei miei confronti. Questa è la cosa più bella per un ex calciatore quando poi incontra i propri tifosi.
Se dovessi descrivere il derby di Roma con una frase, quale useresti?
È difficile per un romano descrivere tutto quello che prova in un derby già da un mese prima, perché la verità è che già da un mese prima il calciatore romano professionista, quando si appresta a giocare contro la Lazio inizia a sentire la partita. Quella pressione va saputa gestire, io a volte ci sono riuscito, altre meno, vivendo anche in un posto in cui quando uscivo incontravo tifosi bianco-celesti e di conseguenza c’era sfottò. La volontà di fare qualcosa di positivo in campo, condiziona un po’, ed io questa cosa la sentivo molto. Immagino ugualmente che Totti, De Rossi e Florenzi abbiano avuto le stesse mie tensioni e attenzioni, sia qualche giorno prima che nel giorno stesso. È difficile con una frase descrivere il derby, quello per un romano è un appuntamento troppo importante; è come scrivere su una pagina vuota una bellissima frase che può diventare bruttissima e non puoi più cancellare niente, queste partite rimangono, anche se magari non giochi per lo scudetto. Sono domeniche che rimangono impresse, e di conseguenza cerchi di preparati nel migliore dei modi. Alcune volte ci riesci, mentre altre volte arrivi alla partita che la tensione ti ha fatto spendere molte energie a livello psicologico.
Cosa hai provato dopo il tuo primo goal in un derby essendo romano e romanista da sempre?
Il mio primo goal nel derby mi sembra sia stato al Flaminio, ed è stato una liberazione. Entri di diritto nella storia di queste partite e nella storia del club, perché quando fai goal in una partita così importante, comunque è qualcosa che rimane. Sia il primo che quello allo stadio Olimpico sono stati due momenti bellissimi, in uno siamo andati in vantaggio e potete immaginare il mio entusiasmo, la mia voglia di festeggiare. Addirittura (quello all’Olimpico) stavo andando sotto la Curva Nord, per scopiazzare Chinaglia, poiché l’avevo promesso ad un mio amico che stava nella settore della Lazio e gli dissi: “se questa volta faccio goal vengo sotto la Nord”, poi però ci fu Tempestilli che mi prese per i capelli sotto la Tevere e mi fermò, altrimenti io sarei andato, e quando mi fermò io mi sono anche un po’ arrabbiato. Queste erano le mie vigilie, le mie partite, le mie sensazioni e le mie tensioni, era un continuo prenderci in giro con i miei amici laziali perché io sapevo che loro stavano dall’altra parte in Curva Nord e volevo e dovevo essere determinante.
È la rivalità che rende bello questo sport.
Si, la rivalità, gli sfottò, io avevo questo macigno dentro, volevo fargli passare una brutta domenica ai miei amici laziali, sia che fossero allo stadio sia da casa, quindi giocavo anche con maggior foga perché avevo questo dentro.
Hai giocato a cavallo delle due Rome più forti di sempre (primi anni ’80, e primi anni 2000), ma le soddisfazioni non sono comunque mancate. Ci potresti descrivere le tue sensazioni nel momento in cui alzavi un trofeo?
Le prime due Coppa Italia vinte sono state bellissime perché erano all’Olimpico, mentre la terza fu a Genova contro la Sampdoria. Qualche minuto prima della fine fui sostituito da Bianchi e al fischio finale sono andato a farmi ridare la fascia per presentarmi alla premiazione da capitano, dove c’era la signora Flora Viola dato che il quel momento c’era il passaggio dai Viola a Ciarrapico. L’ho vissuta con tanta felicità, ma festeggiarla all’Olimpico è stato qualcosa di fantastico, perché hai 60/70 mila persone che gioiscono insieme a te.
Cosa è successo in quella trattativa che ti avrebbe potuto portare alla Juventus? Se non fosse stato per le parole di Dino Viola saresti andato a Torino?
Io non sapevo niente sino a quando Viola non lo disse alla fine del mercato. Il presidente esternò il fatto che fino all’ultimo giorno Boniperti aveva fatto un’offerta per me. Mi accorgevo che quest’ultimo e Montezemolo (ai tempi dirigente bianconero) avevano un’attenzione particolare nei miei confronti, ma non pensavo fino al punto di essere disposti a sferrare l’attacco per prendermi. Poi quando Viola lo disse mi ha fatto piacere, perché era la Juventus, perché era la squadra più titolata d’Italia e cercava un giocatore della Roma, ma sono stato contento di come Viola gli rispose: “Questo rimane qui perché giocherà tanti anni nella Roma e ci rimarrà per sempre”. Questo è quello che la famiglia Viola voleva nei miei confronti, ma poi sonno cambiate tante cose dopo la morte di Dino. Subentrarono Mezzaroma e Sensi, poi Mezzaroma andò via e rimase solo Sensi e da lì iniziò il mio percorso in salita nell’ambiente della Roma.
Cosa vi siete detti nello spogliatoio prima dei due Roma-Inter in finale di Coppa Uefa. Quanto era sentita quella partita all’interno della squadra?
Era sentita molto, sia da parte nostra che da parte loro perché nelle due squadre c’erano diversi nazionali Italiani. Dopo loro avevano quest’atteggiamento particolare, che quando giocavano in casa si trasformavano, a volte neanche ti salutavano, facevano gli “arrabbiati” sin dal sottopassaggio di San Siro e poi però quando li incontravi a Roma cambiavano un po’ le situazioni, gli atteggiamenti, c’erano sorrisi, abbracci ecc. Questo a me dava fastidio; se devi essere in un modo lo devi essere per sempre e in qualsiasi situazione, sia che giochi in casa, sia che giochi in trasferta. Io ero rompiscatole a Roma e fuori, rischiando di trovare anche qualcuno che potesse dirmi qualcosa, ma sono stato sempre me stesso. A volte rimanevo antipatico proprio per questo, perché non cambiavo assolutamente a seconda di dove stavo e con chi stavo.
Fonte: Giornale Romanista
Forza Roma!